Durata: 1 mese
Paesi percorsi: Thailandia – Myanmar (Birmania) – Laos
Periodo: agosto
Rientrati in patria dopo i nostri 6 mesi di vagabondaggio attraverso l’America Latina, la vita pian piano torna alla normalità, ma tutto appare sotto una luce diversa. I cambiamenti ovviamente non riguardano il mondo esterno, ma noi stessi. Siamo noi ad avere occhi nuovi nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Di certo la nostra grande avventura ci è servita moltissimo. Tra i tanti doni ricevuti da questa esperienza forse quello che influirà maggiormente sulle nostre azioni e sul nostro modo di pensare d’ora in avanti, sarà la piena consapevolezza di quanto fortunati siamo in realtà. Un dettaglio a cui solitamente nessuno fa caso e che si dà per scontato con troppo leggerezza.
Qualcuno potrebbe ipotizzare che dopo così tanto tempo lontani da casa nei mesi seguenti ci siamo dedicati al più totale ozio. E invece tutto il contrario. Dopo un breve riposo riprendiamo a viaggiare con maggior vigore. La nostra attenzione si rivolge alle capitali europee, ma soprattutto all’Italia, cogliendo anche l’occasione per andare a trovare vecchi e nuovi amici sparsi lungo il territorio nazionale.
Il desiderio di afferrare di nuovo i nostri zaini e partire verso mete lontane però è sempre lì che freme e non accenna a placarsi. È come avere un elefante che gira per casa, puoi ignorarlo, ma le pareti tremano quando si muove. Così iniziamo a riflettere non su quale paese vogliamo visitare. Sappiamo bene che la risposta è sempre la stessa, “tutti”. Il punto è decidere semplicemente quale vogliamo vedere per primo.
Myriam ed io abbiamo entrambi voglia di approfondire la conoscenza dell’Asia di cui avevamo avuto un assaggio 3 anni fa (Sud-Est Asiatico 2012 insieme a Mryriam, Simone e Ilaria). Scegliamo così di proseguire l’esplorazione del sud-est asiatico ripartendo proprio da dove ci eravamo fermati e concentrandoci su paesi meno conosciuti e meno turistici. L’obbiettivo è quello di rendere il più autentica possibile la nostra esperienza.
Il piano iniziale è quello di usare ancora una volta la Thailandia come base di arrivo e di partenza, approfittandone inoltre per conoscere lo straordinario sito archeologico di Ayutthaya che si trova non lontano dalla capitale.
La nostra attenzione sarà però per lo più concentrata su due paesi troppo spesso trascurati e sottovalutati, il Myanmar (ex Birmania) e il Laos. Il primo è rimasto per moltissimo tempo chiuso ai visitatori stranieri e finalmente da poco ha aperto le sue porte al mondo esterno. Il secondo invece sembra quasi non essere nemmeno a conoscenza che vi sia un mondo al di fuori dei suoi confini. Insomma due realtà estremamente affascinanti, originali e soprattutto vere.
Creiamo un itinerario di massima senza imporci troppi paletti. Oramai siamo consapevoli di essere in grado di cavarcela in ogni situazione. Sarà proprio questa nostra sicurezza però, unita alla sorte avversa, che ci costringerà a cambiare una parte del nostro itinerario. Eravamo infatti convinti di poter attraversare senza grandi intoppi le remote zone orientali birmane per entrare via terra direttamente in Laos. Non abbiamo tenuto conto però degli scontri armati tra le forze governative e le milizie ribelli Kokang che interessano in particolare il nord-est del paese. Anche volendo rischiare non ci permettono di passare. A questo piccolo intoppo poi si somma una vera tragedia, una delle alluvioni più terribili della storia del Myanmar. Le vittime saranno 46 e gli sfollati 200.000, per non parlare della vicina India i cui numeri saranno ancor più gravi. Per noi significherà solo bagnarci un po’ e dover saltare alcune città, ma per la popolazione sarà devastante.
Nonostante qualche intoppo quindi, il nostro viaggio si rivelerà a dir poco meraviglioso. Come al solito la componente umana avrà un peso importante. Se i sorridenti tailandesi ci avevano già conquistato in passato, i birmani e i laotiani ci faranno davvero innamorare. Certo comunicare spesso non è semplice. Tutto però avviene tra grandi sorrisi e gesti sinceri. Così anche quando le barriere linguistiche appaiono insormontabili, in un modo o nell’atro si riesce sempre a comprendersi l’un l’altro. L’impressione che resta poi è che le difficoltà legate alle differenze culturali e idiomatiche scompaiano all’istante se l’approccio reciproco si rivela empatico, sensibile e carico di allegria.
Il popolo birmano stupisce per la sua estrema cortesia e per la sua curiosità. Una curiosità più che comprensibile se si pensa che per molti anni l’ingresso in Myanmar agli stranieri è rimasto interdetto. Le persone per strada ci sorridono in continuazione e, sembra assurdo, ma molti ci chiedono il permesso di fare una foto insieme a loro. Tutti in un modo o nell’altro tentano di instaurare un dialogo per capire chi siamo, da dove veniamo, ma soprattutto con l’intento di coinvolgerci nel loro mondo e nelle loro tradizioni. Che si tratti infatti di giocare in cerchio a chinlone, di assaggiare il betel, di indossare un longyi o di truccarsi il volto con il thanaka, la sensazione è sempre quella di essere i benvenuti.
I laotiani possiedono lo stesso spirito pacato e gentile, ma dotato di una maggior timidezza. Per quanto siano abituati infatti a vedere turisti, specie nei centri urbani, trovare qualcuno che parli inglese nelle zone rurali è praticamente impossibile. Questo probabilmente ne frena il desiderio di interazione, per lo meno all’inizio.
Questo viaggio si rivelerà più sorprendente di quel che pensassimo. La Thailandia non solo riconfermerà le impressioni positive già avute in passato, ma ci permetterà di scoprire un nuovo volto, più mite e sereno, lontano dalla frenesia della capitale. Il Myanmar riempirà i nostri occhi con cotanta bellezza da rubarci l’anima al primo sguardo, grazie alle sue innumerevoli pagode dorate e alla fortissima spiritualità che pervade ogni cosa. E infine il Laos, un vero e proprio balzo indietro nel tempo avvolti nel silenzio di un’epoca ormai lontana, tra monaci buddhisti, donne intente a lavarsi sotto i ruscelli avvolte nei loro affascinanti sarong e, possenti elefanti, veri guardiani di una natura ancora selvaggia e incontaminata.
Itinerario dettagliato e rapida descrizione:
Thailandia
BANGKOK – MAE SOT
Myanmar (Birmania)
KYAIKTO – BAGO – YANGON – BAGAN – MANDALAY
Thailandia
CHIANG MAI – CHIANG RAI – MAE SAI
Laos
LUANG NAM THA – NONG KHIAW – MUANG NGOY – HUAY SEN – LUANG PRABANG – SAINYABULI – VIENTIANE – NONG KHAI
Thailandia
AYUTTHAYA – BANGKOK
Bangkok ci dà il benvenuto in Oriente. Per quanto conosciamo già abbastanza bene la capitale tailandese, una visita ai suoi templi dorati è quasi d’obbligo.
Recuperate le forze e ormai già immersi in questa nuova realtà, partiamo subito verso nord-ovest in direzione Mae Sot. Da qui ci lasciamo alle spalle la Thailandia per entrare in un nuovo affascinante paese, un tempo conosciuto come Birmania, oggi dopo il colpo di stato militare, ribattezzato in Myanmar.
Mentre sbrighiamo le classiche operazioni di controllo alla dogana ci accorgiamo di una coppia di spagnoli spaesata e un po’ in difficoltà. Naturalmente non esitiamo a dar loro una mano. Il fortuito incontro con Xisca e Javi si rivela un vero colpo di fortuna, per loro, dato che non sembrano essere viaggiatori provetti, e per noi, perché avremo l’occasione di conoscere due bellissime persone, la cui spensieratezza e simpatia arricchirà le nostre giornate. Entrambi sono insegnanti delle scuole medie con qualche anno in più di noi. Il loro itinerario non è molto chiaro, anzi, sembra quasi che siano entranti in Myanmar senza molte idee, ma solo con tanta curiosità. Tra noi scatta subito una reciproca simpatia, decisamente inconsueta tra sconosciuti. Così senza ulteriori indugi Xisca e Javi si uniscono a noi.
Saliamo a bordo di uno sgangherato autobus di lamiera che, inconsapevole dei suoi anni corre all’impazzata sfidando l’usura del tempo. Ovviamente l’aria condizionata è assente, ma i finestrini sono tutti abbassati e lasciano entrare un’aria fresca e rigenerante. Il bus è praticamente vuoto. Sono seduto da solo sul fondo a sinistra. Un paio di file avanti a me sulla destra Myriam conversa allegramente con Xisca e Javi. Guardo fuori dal finestrino. Un nuovo mondo si apre davanti ai miei occhi. Mi accorgo che senza volerlo sto sorridendo. I miei occhi incrociano quelli di Myriam che mi sorride a sua volta. E all’improvviso eccolo lì, arriva. La consapevolezza di un istante. Sono felice. Ora, qui, adesso, sono felice. Sembra una cosa sciocca, ma non lo è affatto. Solitamente quando si pensa a un momento in cui ci si è sentiti davvero felici i propri pensieri si rivolgono sempre al passato. È difficilissimo rendersi conto di quando questo avviene nel presente.
La nostra prima tappa è Kyaikto, un villaggio, dove tutti appaiono di una gentilezza disarmante, che sarà la nostra base per salire sul Monte Kyaiktiyo. Questa montagna rappresenta un importantissimo luogo di pellegrinaggio per tutti i fedeli che culmina in cima con un santuario e il celebre Golden Rock. Si tratta di un gigantesco macigno in bilico su un dirupo ricoperto dai fedeli con foglie d’oro. La leggenda vuole che sia un capello del Buddha a tenerlo in equilibrio.
Purtroppo in questi giorni tutto il paese è afflitto da una violentissima alluvione che sta causando vittime e sfollati specialmente al confine con Bangladesh e India. Le piogge però interessano tutto il territorio nazionale e non accennano a interrompersi. Inutile quindi rimandare la nostra scalata. K-way, ombrelli e quant’altro sembrano davvero inutili. La pioggia scende copiosa da tutte le direzioni. Giunti sul punto di partenza decido di togliermi le scarpe e di affrontare la salita scalzo, cosa che avrei comunque dovuto fare nel tratto finale dove è imposto dal regolamento.
Sebbene il Golden Rock possa apparire un po’ pacchiano, sarà per la nebbia che avvolge la vallata, sarà per la devozione di questa gente, o semplicemente perché scalare una montagna a piedi nudi sotto un acquazzone non è certo cosa da tutti i giorni, ma l’atmosfera è carica di spiritualità e di introspezione.
L’indomani prima di riprendere il nostro cammino, le ragazze del villaggio vestite con i loro abiti tradizionali e truccate con il caratteristico thanaka chiedono a Myriam e Xisca il permesso di truccare anche i loro volti secondo le usanze del luogo. Ovviamente non si tirano indietro. Questo genere di interazione culturale rappresenta sicuramente uno degli aspetti più interessanti per un viaggiatore.
Ben presto ci rendiamo conto che le recenti alluvioni hanno messo a dura prova le strade birmane. Giunti a Bago ci informano che l’intera città si trova sotto acqua ed è impossibile raggiungerla. Così nostro malgrado, non possiamo fare altro che saltare questa tappa e proseguire fino a Yangon.
Capitale della Birmania fino al 2005, prima che la giunta militare al potere la declassasse scegliendo Naypyidaw, Yangon è certamente il centro urbano più grande, più popolato e, nonostante tutto, più importante del paese. Avendo già visitato in passato diverse metropoli asiatiche, credevamo di trovarci di fronte ad un ambiente caotico, carico di smog, insomma un trambusto insopportabile. E invece no, niente affatto. Yangon conserva diversi angoli nascosti e scorci a misura d’uomo.
Percorriamo in lungo e in largo la città soffermandoci ad ammirare templi, mercati, santuari, monasteri e mastodontiche statue sacre. Le persone ci fermano per strada o all’ingresso dei vari punti di interesse e ci chiedono il permesso di fare una foto insieme a loro. All’inizio la cosa ci appare poco chiara e quasi imbarazzante, ma una volta familiarizzato con la nostra nuova identità da superstar, la situazione diviene divertente e ci permette di abbattere ogni barriera con un semplice sorriso.
Accomunati da una grande curiosità che ci pervade e dal desiderio di immergerci sempre più nella cultura birmana, Victor ed io acquistiamo i tipici longyi, una specie di pantalone-gonna indossato dagli uomini locali. Inoltre non possiamo esimerci dall’assaggiare il betel. Tutti in questo paese masticano continuamente questa foglia farcita con noce di areca, calce spenta, spezie varie e a volte tabacco. Il sapore è piuttosto forte, ma non è male. L’odore inconfondibile invade le strade, e quelle che sembrano macchie di sangue sull’asfalto non sono altro che gli sputi di questa sostanza che stimola la salivazione. Non c’è quindi da spaventarsi se le vecchiette quando sorridono sembrano appena uscite da un film horror con tutti i denti color porpora.
Ciò che ci porteremo dentro per sempre di Yangon è senza alcun dubbio il fascino mistico dello Shwedagon Paya. Uno dei luoghi di culto buddhisti più importanti al mondo. A lasciare senza fiato non sono solo le dimensioni o lo straordinario splendore delle cupole dorate, ma una profonda aurea di spiritualità che pervade ogni cosa, ogni gesto, ogni individuo. Impossibile non rimanerne affascinati ed emotivamente coinvolti. Visitare lo Shwedagon Paya infonde nuova linfa vitale all’anima. Trascorriamo ore avvolti da cotanta bellezza, per poi sederci insieme agli altri fedeli ad ammirare il tramonto e la cupola centrale che, illuminata, diviene un vero e proprio faro dorato capace di eludere la più profonda oscurità.
Proseguiamo verso Bagan, la meta più attesa di tutto il nostro il viaggio. Purtroppo Myriam ed io accusiamo entrambi un certo malessere, niente di grave, qualche linea di febbre e un senso di nausea e spossatezza che ci obbliga ad uno stop di 24h. Xisca e Victor invece sono giunti alla fine del loro viaggio. Disponevamo purtroppo di pochi giorni e dopo Bagan devono far ritorno a Bangkok. È stato davvero bello condividere con loro parte della nostra avventura. Ci salutiamo con tanta tristezza nel cuore e con la speranza un giorno di rivederci ancora.
Un tantino provati, ma con grandissimo entusiasmo, ci alziamo all’alba e noleggiamo uno scooter elettrico, fondamentale per poter esplorare la vasta piana di Bagan lungo la quale sono disseminati più di 3000 templi buddhisti. Sarebbero necessari mesi per poterli vedere tutti. Ognuno tra l’altro racchiude in sé qualche caratteristica o particolare unico. Al loro interno infatti si celano antiche statue, decorazioni variopinte e pitture straordinariamente conservate. Sebbene il caldo si faccia sentire lo scooter offre un certo refrigerio tra uno spostamento e l’altro.
Trascorriamo l’intera giornata a vagare attraverso questo luogo unico al mondo che sembra inglobare i visitatori in una dimensione al di fuori del tempo. Verso sera saliamo sulla cima di uno dei templi più alti. L’intento è quello di ammirare al meglio il tramonto su questa infinita distesa di cupole che emergono dalla vegetazione, testimoni di un passato glorioso ormai scomparso. La vista è stupefacente e ci regala uno di quei momenti magici che, anche dopo anni, il solo pensiero riempie ancora lo sguardo di indefinibile bellezza e il cuore di gioia.
È tempo di ripartire. Il nostro avanzare di questi giorni è stato però rallentato dalle alluvioni e dal breve stop causato dai nostri problemi di salute. Per questo motivo siamo costretti con grande dispiacere a saltare la nostra escursione al Monta Popa. Questa scelta è dettata anche dal fatto che per raggiungere il tempio buddhista che sorge sulla cima di questo picco vulcanico, bisogna salire 777 scalini resistendo ai continui assalti di centinaia di scimmie che, dispettose, tentano incessanti di rubare il cibo o qualsiasi altro oggetto di cui si disponga. Le nostre condizioni sebbene migliorate non sono proprio al top per affrontare una tale fatica.
Come se non bastasse veniamo a sapere che tutti i villaggi intorno al Lago Inle, nostra prossima tappa, sono completamente sommersi, e che le vie di accesso sono impraticabili. Cechiamo informazioni e soluzioni per proseguire, ma invece arriva la batosta finale. Il nostro itinerario prevedeva di spingerci a est fino a entrare via terra in Laos. Eravamo a conoscenza che questo territorio fosse considerato “zona rossa” in quanto teatro di scontro tra le forze governative e le milizie ribelli Kokang, ma la situazione sembrava da tempo sotto controllo. Le tensioni invece sono riprese proprio in questi giorni. Anche volendo rischiare, i militari non permettono a nessuno di passare.
Purtroppo non abbiamo molte alternative, se non quella di prendere un volo da Mandalay verso il nord della Thailandia e da lì varcare il confine con il Laos. In questo modo perderemo anche Pindaya con le sue grotte che ospitano migliaia di statue del Buddha.
Saliamo a bordo di un tuc-tuc con destinazione il terminal degli autobus di Bagan. Qui incontriamo Chiara e Matteo, una coppia di Milano diretti come noi a Mandalay. Non avendo nessun programma questa volta siamo noi a unirci a loro. Alloggiamo così nello stesso hotel. Un veloce giretto per la città e qualche commissione per poi ritrovarci nuovamente a trascorrere la serata insieme.
La mattina seguente è già ora di salutare questo incantevole paese. Mentre attendiamo la partenza del nostro volo veniamo ospitati all’interno della sala vip della compagnia aerea. Qui ci offrono una colazione che in realtà sembra più che altro un pranzo. Conosciamo Diego, un simpatico ragazzo argentino che viaggia da solo attraverso il sud-est asiatico e che in patria fa il giornalista e il conduttore del telegiornale per la rete nazionale. Le nostre comuni radici rioplatensi aiutano da subito a rompere il ghiaccio. Diego ci racconta che sono settimane che non ha la possibilità di parlare in spagnolo con nessuno e così mangiamo insieme raccontandoci le nostre rispettive disavventure.
Atterriamo a Chiang Mai, siamo di nuovo in Thailandia. Salutiamo Diego e proseguiamo subito fino a Chiang Rai. Cogliamo l’occasione per visitare il Wat Rong Khun, meglio conosciuto come il Tempio Bianco. Si tratta di una costruzione a dir poco bizzarra e visionaria, realizzata con l’intento di essere luogo di culto sia buddhista che induista. L’intero complesso è un insieme di modernità kitsch, un miscuglio di elementi artistici e personaggi cinematografici o puramente di fantasia. Bisogna ammettere però che nell’insieme quest’opera, realizzata totalmente in gesso bianco in modo così pittoresco, suscita un forte senso di attrazione nell’osservatore.
Passando per Mae Sai ci lasciamo alle spalle ancora una volta il paese tailandese per dare il via ad una nuova avventura. Entriamo in Laos.
Sin dal primo istante sembra di aver attraversato un portale temporale. L’asfalto scompare. Tutte le vie sono tracciate sulla terra battuta. Mezzi a motore pochissimi e sgangherati. Attorno a noi solo natura. Sul ciglio della strada sbucano piccoli ruscelli sotto ai quali, donne di tutte le età, sono intente a lavarsi, avvolte nei loro caratteristici sarong.
Ci fermiamo a Luang Nam Tha, un piccolo villaggio rurale, ideale per esplorare le comunità limitrofe e per fare un po’ di trekking tra montagne selvagge e coltivazioni di riso disseminate lungo la vallata. Nessuno parla inglese o qualsiasi altra lingua oltre al laotiano. I problemi di comunicazione divengono però momenti di ilarità generale, tra improbabili gesti e tante, tante risate.
Giriamo in lungo e in largo sia a piedi che in bicicletta, lasciandoci avvolgere completamente da quel senso di quiete e di lentezza che caratterizza le vite di queste zone remote. Se crediamo però di trovarci in un luogo sperduto e lontano dal mondo, capiremo presto che in realtà non abbiamo ancora visto niente. Il nostro obbiettivo infatti è quello di conoscere fino in fondo lo spirito più autentico di questo paese. Così optiamo per spingerci ancora più in profondità.
Viaggiamo lungo strade fangose per circa 6 ore fino a Nong Khiaw. Da qui siamo costretti a proseguire in barca. La nostra prossima destinazione infatti non è raggiungibile via terra, non perché si trovi su un’isola, ma semplicemente perché non esistono strade. Saliamo quindi su una piccola lancia di legno che in poco più di un’oretta ci porterà fino a Muang Ngoy. A bordo conosciamo Ori e Tomer, due ragazzi israeliani che come noi viaggiano zaino in spalla per il sud-est asiatico.
La navigazione sul fiume Nam Ou è davvero uno spettacolo. Attorno a noi le montagne, coperte da una fitta vegetazione, lambiscono la riva dove sbucano bufali e bambini che giocano tra tuffi e risate. L’azzurro del cielo e il verde circostante poi fanno da contrasto con l’intenso colore marrone rossastro dell’acqua.
Ora si che siamo davvero in mezzo al nulla e il mio cuore è colmo di gioia. A Muang Ngoy non c’è nulla, ma in realtà c’è tutto. Contrariamente a quanto si possa credere, gli alloggi e i ristorantini lungo il fiume sono ottimi e ricchi di fascino. Ci si sposta a piedi, tra bambini scalzi che giocano felici mentre ci osservano curiosi e intimiditi. Dormiamo nella stessa struttura dei nostri due nuovi amici israeliani e insieme a loro trascorriamo la serata in riva al fiume sorseggiando qualche birra. A noi si aggiungono anche altri viaggiatori. Per la precisione due ragazzi spagnoli e due ragazze anch’esse spagnole. L’occasione giusta per divertirci un po’ familiarizzando con culture diverse.
La mattina seguente Ori si unisce a noi in una lunga, ma non particolarmente faticosa giornata di trekking. Il suo amico Tomer invece preferisce restare a letto a riposare. Ci lasciamo velocemente alle spalle il Muang Ngoy e attorno a noi appaiono nuvole di farfalle arancioni e bianche che sembrano accompagnare divertite il nostro cammino. Che meraviglia! Attraversiamo piccoli fiumi e silenziose vallate, soffermandoci ad esplorare alcune grotte e visitando il piccolo villaggio di Huay Sen, realizzato interamente su palafitte. L’atmosfera qui è indescrivibile. Probabilmente la sensazione è la medesima che provavano in passato gli esploratori che incontravano per la prima volta un’altra civiltà. Ci fermiamo a bere qualcosa nell’unica abitazione che somiglia vagamente a un bar con l’intento di lasciare un contributo economico alla comunità e di fare due chiacchere con il proprietario, anche se in questo caso la comunicazione è davvero molto difficile.
Uno degli aspetti più interessanti di questa giornata è stato sicuramente il confronto con Ori. Purtroppo sebbene sia perfettamente consapevole che la cosa più sbagliata in assoluto sia “fare di tutta l’erba un fascio”, in passato ho avuto sempre brutte esperienze con persone di origine israeliana. Fortunatamente Ori mi ha ricordato che non si può giudicare qualcuno in base ai preconcetti. Abbiamo parlato tantissimo, toccando anche argomenti piuttosto delicati su cui nutriamo opinioni radicalmente opposte. Ciononostante è stato un confronto costruttivo e intelligente che sono certo abbia giovato a entrambi.
Lasciatoci alle spalle questo mondo perduto e insieme a lui anche i nostri nuovi amici, Myriam ed io torniamo alla civiltà facendo sosta in quella che probabilmente è la città più affascinante di tutto il Laos. Sto parlando di Luang Prabang. Al Mondo esistono città che apparentemente per nessun motivo, ma in realtà per mille ragioni inducono a uno stop e obbligano il viaggiatore a sostare più di quanto avesse pianificato. Luang Prabang è certamente uno di questi luoghi. La sua indiscutibile bellezza e la quantità di attività e attrazioni naturali richiamano un ingente numero di turisti. La sensazione però non è quella di un’invasione di massa che danneggia il fascino locale. Al contrario. Sembra quasi una meta di ritrovo tra vecchi amici che, anche se non si conoscono, giungono sin qui consci di quel legame profondo e segreto che unisce tra loro tutti i viaggiatori.
Scoprire Luang Prabang è un continuo alternarsi di emozioni. Si inizia all’alba quando lungo le strade sfilano i monaci buddhisti rigorosamente in fila indiana, con le loro caratteristiche tuniche arancioni. Pregano e ringraziano i fedeli che, inginocchiati, offrono loro cibo con grande rispetto e devozione. Si fa colazione in qualche sofisticato cafè francese per poi immergersi nell’essenza più profonda dei templi dorati cittadini. Si sceglie tra trekking, il kayak o, ancora meglio, il semplice girovagare in bicicletta per le campagne limitrofe. In città poi ovunque sorgono spa dove rilassarsi con un buon massaggio o qualche trattamento di bellezza. Verso sera le strade divengono vere e proprie pedonali e ci si tuffa a capofitto tra le colorate bancarelle artigianali, non prima però, di aver assaggiato una di quelle enormi e squisite baguette imbottite, simbolo ormai dello street food locale.
Oltre a tutto ciò noleggiamo uno scooter per raggiungere le cascate Kuang Si, con le sue meravigliose pozze naturali color turchese. Irresistibili per rinfrancarsi dalla calura estiva e rigenerarsi tra una natura splendida e selvaggia. Prima di raggiungere le piscine c’è anche un interessante centro di recupero e salvaguardia degli orsi neri asiatici. È possibile osservarli da vicino rendendosi conto del fondamentale lavoro svolto per combattere il bracconaggio e il commercio illegale di questi magnifici esemplari.
Mentre facciamo il bagno incontriamo due ragazzi italiani, Gianluca e Cristian, che da mesi stanno attraversando il sud est asiatico a bordo di due sgangherate motociclette dal fascino retrò. Entriamo subito in simpatia, e l’impressione è quella di conoscerci da sempre. Lo spirito avventuriero e sognatore che pervade me e Gianluca contribuisce di certo a farci legare. Sarà uno di quegli incontri che lasciano il segno.
Solo il pensiero di quella che sarà la nostra prossima meta ci permette di trovare le forze per afferrare nuovamente i nostri zaini. A Sainyabuli infatti ci attende un’esperienza indimenticabile. Trascorreremo 3 giorni all’Elephant Conservation Center. Dormiremo li, nutriremo gli elefanti, li porteremo a fare il bagno, ma soprattutto, impareremo a conoscerli da vicino e a rispettarli come è giusto che sia. Il centro è raggiungibile solo in barca, proprio perché si trova praticamente in mezzo alla foresta, prerogativa che permette appunto di offrire un habitat naturale perfetto per i tanti elefanti di cui questo ente si prende cura ogni giorno. La maggior parte di questi mastodontici esemplari provengono da situazioni di maltrattamento, abusi o vittime dirette o indirette del bracconaggio. Fatto sta che col tempo tutti sono tornati ad avere fiducia nell’uomo e, sebbene si avverta chiaramente di essere di fronte ad animali selvaggi, in loro traspare un’intelligenza e una bontà d’animo che lascia senza fiato. All’inizio sembra quasi che ci sia uno studio reciproco, tra noi e gli elefanti. Quasi dovessimo capire se possiamo fidarci l’uno dell’altro. Col trascorrere delle ore però gli stessi elefanti prendono coraggio e comunicano con noi in modo talmente naturale e diretto da essere quasi commovente.
Condivideremo questi giorni di pura magia e divertimento insieme ad Anabel, che lavora e praticamente dirige il centro. Pablo e Mari, una coppia spagnola amici di infanzia di Anabel e Guillaume, un ragazzo francese.
Non dimenticherò mai la nostra capanna con vista sul fiume e i tanti abbracci con gli elefanti e quelle loro proboscidi impertinenti. È stata una delle esperienze più emozionanti della mia vita.
Ripresa a fatica la nostra marcia ci spostiamo nella capitale del Laos. Vientiane però ha ben poco in comune con quelle caotiche e frenetiche metropoli asiatiche. In effetti non sembra affatto una capitale, semmai una piccola cittadina di provincia molto curata e organizzata che sa accogliere al meglio i suoi visitatori.
Due sono i luoghi assolutamente da includere nel proprio itinerario e per motivazioni decisamente diverse. Lo Xieng Khuan, un parco artistico impressionante, dove centinaia e centinaia di statue di pietra dalle dimensioni più varie, cercano in qualche modo di fondere insieme iconografie buddhiste e indù in un connubio votato più all’arte che alla religione.
E il COPE Visitor Centre fondamentale per comprendere come mai un paese che non è mai entrato in guerra durante il conflitto tra Stati Uniti e Vietnam si ritrovi oggi con il maggior numero di bambini mutilati e campi minati. Una visita struggente, ma doverosa.
Rientriamo in Thailandia, facendo sosta a Nong Khai, per esplorare i templi e i mercati situati sulle rive del Mekong. Proseguiamo verso sud in direzione Bangkok, ma non è ancora giunta l’ora della folle metropoli tailandese. Il nostro obbiettivo è Ayutthaya. Oggi restano solo le tracce del prestigio di un tempo. Per secoli infatti questo è stato il fulcro del commercio internazionale. Ed è proprio questo passato glorioso che si respira nell’aria e che contribuisce ad alimentare il fascino di Ayutthaya. Il Parco storico è stato riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, e offre la possibilità di immaginare come poteva essere la città al massimo del suo splendore. Noleggiamo due biciclette, fondamentali per spostarsi all’interno di questo straordinario sito archeologico, tra rovine, templi di mattoni e statue che sembrano sfidare il trascorrere del tempo. In qualche modo questo vagare tra antiche vestigia ci ricorda la piana di Bagan, sebbene con ovvie differenze sostanziali.
Esausti, ma felici torniamo a Bangkok. Abbiamo deciso però che dopo tanto pellegrinare ci meritiamo un premio. Ci concediamo così le ultime due notti in un hotel a 5 stelle extralusso, alternando in questo modo la visita della città al più totale relax in un luogo paradisiaco.
Conclusione
Purtroppo la nostra avventura volge al termine. Rispetto a 3 anni fa (Sud-Est Asiatico 2012 insieme a Mryriam, Simone e Ilaria) siamo riusciti a rallentare e a goderci maggiormente ogni singola destinazione. Vi sono state certamente diverse difficoltà da affrontare, ma come sempre tutto si è risolto per il meglio.
Se dovessi definire con una sola parola questo viaggio, adotterei il termine “sorprendente”. Tutti coloro che nel corso della loro vita hanno viaggiato tanto, sanno che prima o poi, arriva un momento in cui si sente la necessità di qualcosa di nuovo, di diverso, quel qualcosa che possa tornare a stupire. Il Myanmar, in particolare, credo rappresenti proprio questo. La possibilità di lasciare senza parole anche i viaggiatori più incalliti. A questo si aggiunge la sensazione di essere sempre i benvenuti, tanto qui quanto in Laos. Altro paese che lascia sbigottiti per la sua autenticità più pura e profonda. Una piccola gemma nascosta nella giungla che si spera resti tale più a lungo possibile.
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2 pensieri riguardo “Sud-Est Asiatico 2015 (insieme a Myriam)”